venerdì 7 giugno 2013

«A Palermo con mio figlio 15 anni dopo La gente mi evita, teme la mafia»

Corsera. 22 maggio 2007.
Il viaggio con Manù, che aveva quattro mesi quando il padre venne ucciso. «Poteva cambiare tutto, ma lo Stato si è fermato»
«A Palermo con mio figlio 15 anni dopo
La gente mi evita, teme la mafia»
Rosaria Schifani, vedova di un agente della scorta di Falcone: i giudici? Litigano come allora
DAL NOSTRO INVIATO
PALERMO — Quindici anni dopo la strage di Capaci, è tornata a Palermo
 Il luogo dove avvenne la strage di Capaci nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca  Morvillo e tre agenti della polizia di Stato di scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. (Ansa)
Il luogo dove avvenne la strage di Capaci nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della polizia di Stato di scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. (Ansa)
Rosaria. Con il suo Manù che aveva appena quattro mesi quando restò orfano. La giovane vedova, sempre ricordata per quell'acuto dolente rivolto ai mafiosi, «Vi perdono, ma inginocchiatevi», ha scrutato per cinque giorni la città dove il marito Vito Schifani morì dilaniato con altri due colleghi per proteggere Giovanni Falcone. Eccola con Manù in centro, in vacanza come una turista, fra Politeama e Teatro Massimo dove nessuno la riconosce. A passeggio nella borgata dove nacque, a Vergine Maria, con il ragazzo che lei ha fatto crescere in Toscana.

E Manù ha scoperto solo adesso con inquietudine i vicoli, le casette basse fra lungomare e cimitero dei Rotoli, gli angoli abbelliti, ma anche il disastro della vicina Arenella, la spazzatura agli angoli, le costruzioni abusive. Con gli occhi di un ragazzo stupito, disorientato davanti alla città ritrovata: «Mamma perché Palermo è così bella e così brutta?». Rosaria ha ricostruito la sua vita lontano da Vergine Maria e dall'Uditore, il quartiere dei genitori. Ma ha voluto accompagnare Manù nella città da dove l'aveva portato via. Ha ripercorso le strade dell'infanzia, ha rivisto parenti, incrociato conoscenti.

Un viaggio, un calvario. La prima posta è la casa natia, due ulivi, il mare di fronte. Una donna s'avvicina, incerta. «Sei la figlia di Lina?». «Ho colto affetto. Ma è scattato subito un rifiuto», spiega Rosaria turbata su queste viuzze a due passi dal cimitero. Le case dei vivi a ridosso delle tombe. Le case sulla costa dominate da croci e gentilizie che scivolano sul pendio. Morte e vita impastate. «Gli uomini non si avvicinano. Contorti come i vicoli. Hanno paura, incontrandomi, fermandosi e parlando, di dare l'impressione di pensarla come me. E allora tanti fingono di non vedermi: meglio non averci a che fare. E gli sguardi mi attraversano come fossi trasparente. Ma non dovrebbe essere il contrario? Dovrei essere io a non volere avere a che fare con loro». Manù osserva e chiede: «Si vergognano di te, mamma?».

■ Video-Il drammatico appello di Rosaria Schifani ■ Video-La strage

Ha trovato la casa delle vacanze su Internet, a due passi da Villa Igiea. «Bellissima», gioisce dal balconcino sul mare e sui pizzi della Tonnara Florio. Ma si rabbuia subito, mentre due ragazzotti schizzano in moto senza caschi: «La spiaggia, una distesa sterrata. Il mare bagna polvere e immondizia. Dov'è il Comune? Hanno fatto le elezioni e hanno un sindaco. Ma c'è un netturbino? Un vigile urbano che si occupi delle norme da rispettare? La facciata di Palermo finalmente appare vivibile nel centro della città. Qualcosa è stata fatta, si vede. Ma un sindaco non deve lavorare sul bello, deve occuparsi del brutto. Chiedo scusa, ma non mi sembra che Palermo sia andata avanti».

Tornerebbe Rosaria a vivere qui? «Manco morta. A Palermo sento odore di mafia, l'arroganza del quartiere, della politica ridotta ad affare, del parcheggiatore abusivo, dei commercianti meravigliati quando chiedo lo scontrino. Da sola ci starei. Per sfidare quei maledetti che condizionano pure il respiro dei nostri parenti. Qui prevale il doppio. La costa sembra bella ed è brutta per le costruzioni che la assediano. Le case sembrano brutte, ma dentro sono belle. Per nascondere, per confondere, per scansare invidie. Prevale il contrasto. Guardo e mi rattristo. Qui non cambia niente».
E' l'amara sensazione che l'accompagna attraversando la città, indicando a Manù l'Albero Falcone, arenandosi nel traffico intorno al Palazzo di Giustizia.

Da lontano ha pensato che potesse cambiare qualcosa? «Poteva cambiare tutto. Ma lo Stato si è fermato. I magistrati hanno ripreso a litigare fra loro. Divisi fra amici di Grasso e amici di Caselli. Ancora? Basta. Come ai tempi di Falcone. Senza mai riconoscere i meriti di chi lavora davvero. Sono contenta per tante inchieste che hanno fatto scoprire dei traditori pure all'interno dell'apparato investigativo. Ma non basta. Lo Stato s'è fermato troppe volte. Perché lo Stato ha paura di guardarsi dentro».
E' un atto d'accusa con il quale evoca una stagione investigativa: «Sciolsero il Gruppo Stragi quando ancora stavano lavorando sui mandanti occulti di Capaci e via D'Amelio. E' come se lo Stato avesse voluto interrompere quel lavoro. Quanti libri sono usciti su quelle ed altre inchieste. I magistrati diventano scrittori. Ma non ci dicono fino in fondo in quali misteri si sono impantanati. A cominciare dalla cassaforte vuota di Riina, dal databank di Falcone con la memoria cancellata, dalla borsa fatta sparire dalla macchina di Borsellino con l'agenda dentro».

Un consiglio? «Per Provenzano e compagnia non parlate di cicoria, vizi e vezzi. Non create e non amplificate il mito. Abbiamo di fronte solo assassini».

Chi è Provenzano? «Un signore che, col suo misticismo, prende in giro anche Dio».

Se potesse parlargli? «Una domanda ce l'ho. Perché furono fatte le stragi? Questo voglio sapere, visto che la giustizia arriva e si ferma solo a voi boss. Ma la mafia è mafia quando si associa a qualcosa che si muove in altri ambienti. No, forse è meglio un altro tono: se può fare quest'atto di carità, signor Provenzano, parli per favore. So che forse è utopia. Capisco che potrebbe temere di essere avvelenato in carcere, com'è successo altre volte in Italia, ma faccia la carità a questo popolo senza verità. Si liberi signor Provenzano e muoia almeno senza questo peso. Ti scade l'affitto, Bernardo Provenzano. Sei anche tu di passaggio. Liberati dal male, liberaci con la verità».

L'inquietudine maggiore? «Il mistero delle stragi a Palermo. Perché non a Roma, dove Falcone era un bersaglio facile? A che cosa doveva servire il segnale di Palermo? Bisogna scoprire le complicità alte, visto che tutto accadde mentre si stava eleggendo il Presidente della Repubblica».

Chi potrebbe convincere Provenzano a parlare? «I suoi figli. Ho notato una differenza con quelli di Riina. Una diversità segnata forse dal ruolo della donna. "I miei ragazzi non devono delinquere", avrà detto la madre. Mentre la moglie di Riina, sorella di Bagarella, non mi pare che abbia fatto lo stesso. Ecco perché oggi mi interessa di più la famiglia Provenzano. Ai suoi figli parlerei: aiutate vostro padre a confessare. Tu, figlio di Provenzano che insegni a scuola, insegna a tuo padre a cambiare».

Rosaria insiste quindi su pentimento e perdono? Si può ancora ripetere quel «perdono, ma inginocchiatevi»? «Intanto, chi lo vuole deve chiederlo. E agire. Inginocchiarsi significa parlare, raccontare, pentirsi davvero, non solo fare un patto con lo Stato. Perché con quei patti sono emerse solo mezze verità. Non basta. Serve solo la verità, anche se cruda. Non controfigure della verità nascosta occultando il contenuto di una cassaforte, cancellando e facendo sparire agende».

Prevale il pessimismo? «Ricordo l'incontro con la vedova di Pio La Torre, guardinga. Mi spiegò che eravamo vittime non di "segreti di Stato", ma di "delitti di Stato"».

Che immagine porta via Manù di questa Sicilia? «Gli ho spiegato che, oltre ai boss con la coppola, in questo Paese troppi conviviamo con i mafiosi diventando ciechi. Io no, non posso farlo. Per Manù, cresciuto accanto a un uomo straordinario che chiama papà. Un uomo dello Stato, come lo era il mio Vito. Lo racconto perché perfino un vicino qui mi ha redarguito, agghiacciante: "Te lo sei portato appresso lo sbirro? La prossima volta, da sola". Specchio di una mentalità che se ne infischia della società civile, pietrificata, immutabile, nonostante ogni tragedia, ogni anniversario». E Rosaria riparte.
Felice Cavallaro
22 maggio 2007

sabato 8 settembre 2012

Vi sono suicidi invisibili. Si rimane in vita per pura diplomazia, si beve, si mangia, si cammina. Gli altri ci cascano sempre, ma noi sappiamo, con un riso interno, che si sbagliano, che siamo morti. Gesualdo Bufalino

martedì 19 giugno 2012

Il silenzio è una discussione portata avanti con altri mezzi.
Ernesto Che Guevara

mercoledì 21 marzo 2012


Dei difetti

I difetti sono l’aspetto più divertente e stimolante di un essere umano.
A differenza dei pregi trascinano una persona fuori dall’invisibilità e dall’insipidità nelle quali certi pregi le ficcano. Sei buono, altruista, simpatico? Ok. Però se ti scopro affilato e preciso al limite della puntigliosità mi incuriosisco di più.
Sei una fortezza medievale, strutturata e riservata, praticamente inviolabile?? Ok.
Ma se ti succede d’essere combattuto, confuso ed incapace di resistere senza un abbraccio che ti scaldi e, mentre accade questo, tu sei lì immobile che non sai se desiderare che tutto ciò abbia termine oppure sperare che duri ancora, che l’abbraccio scaldi ogni parte, anche la più nascosta e la più lontana, ecco, subito la mia attenzione si sveglia, vuole capire e poi abbracciarti.
Il difetto, specialmente se spinoso, circoscrive nettamente la propria identità.
Attorno ad un singolo difetto posso avviluppare tutta la mia attenzione, il mio affetto, il mio naturale senso di protezione.
Per questo motivo vorrei che i miei, di difetti, fossero oggetto d’amore assoluto per qualcuno, molto più che i pochi pregi che possiedo.
Trascendo, talvolta, in una forma di passività intermittente che ogni tanto mi dà l’idea di non avere nessuna responsabilità diretta sulla mia esistenza. Proprio perché lascio che il senso del dovere e di colpa mi ingobbiscano quotidianamente cerco con caparbietà chi mi conceda di fare da passeggero, ogni tanto, consentendomi una temporanea distrazione lungo il viaggio -la chiamano fiducia incondizionata-.
Mi piacciono le persone che sanno ripulirsi dai rancori tuttavia io sono rancorosa.
Non sono impulsiva pur essendo dannatamente emotiva ma adoro chi sa seguire uno slancio, chi rincorre un’intuizione preda del più incosciente entusiasmo ma poi è capace di perseverare; perché l’intuizione è preziosa ma la coerenza è santa.
Non dimentico nulla, come un vecchio elefante, e non ho mai utilizzato un’agenda. Mi sento sovente esiliata nella mia stessa pelle ma so stare sola al limite dell’autismo relazionale.
Invidio e sono attratta da chi riesce ad indovinare il tono giusto e lo sguardo giusto per ogni persona a cui si propone e sa essere naturalmente diplomatico. Io non ne sono capace e anche se scegliessi di ammutolirmi per evitare di sbagliare tono e parole sarei tradita dagli occhi e dalla mimica facciale.
Amo un uomo che mi ricorda quasi giornalmente di amarmi tanto quanto mi teme ed io sorrido perché nella mia vita la parte della paurosa è stata sempre la mia. Provo una confusa gratitudine per il suo buio ed il suo tocco leggero, quasi impercettibile.
Perché ho imparato a stringere forte io, a non delegare il coraggio, a cimentarmi nel sostegno.
In questi giorni schiacciati l’uno sull’altro come acini d’uva, in cui marzo rosicchia luce al sole, io tengo a bada il bisogno tattile ed olfattivo che la distanza mi impone.
E scopro che anche la pazienza mi fa difetto.

martedì 21 febbraio 2012

Ci sono giorni di gelo, e giorni di insoddisfazione che alle volte ballano sulle mie ossa. Non per quello che ho fatto, ma per quello che è mancato. Sono giorni in cui sono molto emotivo, una disposizione d’animo che nascondo con malcelata grazia:si deve comunque andare avanti, augurarsi buona fortuna e tirare dritto.


Fuliggians

domenica 15 gennaio 2012

Spazio datemi spazio ch'io lanci un urlo inumano, quell'urlo di silenzio negli anni che ho toccato con mano. Alda Merini

giovedì 12 gennaio 2012

Ci sono voluti piu' di duecento milioni di anni perche' si accendessero le prime stelle nell'universo e non volete concedermi una vita?
orporick

mercoledì 21 dicembre 2011

"Le favole non dicono ai bambini che esistono i draghi, i bambini già sanno che esistono, le favole dicono ai bambini che i draghi possono essere uccisi."
Aaron Hotchner

mercoledì 2 novembre 2011

La gente dà del "migliore amico" a chiunque.
Il termine non ha più un vero significato.
Semplici conoscenze elargiscono baci e abbracci già al secondo o al terzo incontro.
I biglietti di auguri fanno il giro fra gli uffici così tutti possono scarabocchiare uno straccio di sentimentalismo per un collega che conoscono appena.
E tutti si vogliono bene.
Come risultato,quando dici a qualcuno che gli vuoi bene, passa in sordina. Boston legal
"Le amicizie sono come dei piccoli giardini sul retro:si dice che ce ne vogliamo occupare,ma alla fine si rimanda sempre alla settimana dopo." Boston legal

venerdì 15 luglio 2011

Il paradosso di Hausdorff

Le prime case si avvicinano, nella mia strada asfaltata di ora. Chopin
e` finito, il sole e` quasi tramontato e penso che ci vuole un deserto
nell’anima per farsi mancare una camminata in un deserto vero. La
sera, infine, mi spenge.

Il prof bicromatico

martedì 17 maggio 2011

Il problema non sono i rancorosi. Ci sono i rancorosi fertili che, un momento prima di essere risucchiati dal vortice, si tirano da soli per i capelli e riemergono: con il rancore conoscono il mondo, poi al mondo ritornano. I rancorosi cretini no, si stringono una coperta in testa e urlano dal buio. Cosa vuoi capire urlando.
alessandro di nicola

domenica 8 maggio 2011

I più non cercano un compagno di via
ma una persona grazie alla quale accorgersi di esistere. Matt

domenica 24 aprile 2011

Ti amo non per chi sei tu, ma per chi sono io quando sto con te.
-- Gabriel García Márquez

venerdì 18 marzo 2011

mi contraddico
facilmente
ma lo faccio così spesso
che questo fa di me una persona coerente

Caparezza Chi se ne frega della musica

martedì 15 marzo 2011

La ragazza specchio

La ragazza specchio non conosceva le sue fattezze perché gli specchi le rimandavano all’infinito l’immagine sempre più piccola di impronte di dita, fili di polvere, piccole crepe.
La ragazza specchio era amata da tutti coloro che amavano se stessi e le si dichiaravano tenendole le mani, controllando che la loro espressione trasmettesse profondi sentimenti; non poteva fare a meno di ricambiare il loro amore, le si spezzava il cuore ogni volta che uno di loro decideva di lasciarla dopo avere scoperto la comparsa di una ruga, di un capello bianco, ogni volta che uno di loro le voltava le spalle e le diceva che non sarebbe mai finita, se lei fosse stata capace di mentire.
La ragazza specchio era detestata da tutti coloro che detestavano se stessi, e sono una maggioranza, e costoro non riuscivano a tollerarne la vista al punto di cercare di evitarla o addirittura di farle del male, e non riusciva a fare a meno di lanciare loro occhiate di disprezzo anche se dentro si sentiva di capirli.
La ragazza specchio era sempre osservata da tutti e presto aveva capito che in realtà non osservavano lei, le persone, osservavano solo il loro riflesso e nemmeno quello era vero, era figlio di frasi sentite, di immagini viste alla televisione, dell’educazione – la ragazza specchio attirava ogni sguardo, e c’era chi la usava per sistemarsi la cravatta, chi per mettersi il rossetto, chi per sistemarsi la messa in piega, chi per controllare dopo pranzo che il sorriso fosse a posto, non ci fosse l’insalata in mezzo ai denti – questi spesso le pendevano vicino da lasciarle addosso il fiato, i ragazzi disegnavano sconcezze nell’alone, ogni giorno una tortura.
La ragazza specchio evitava i luoghi troppo scuri e quelli troppo illuminati, evitava le persone, adorava soprattutto certi verdi panorami che le davano una calma che perdeva nella folla, le piaceva andar di notte a sdraiarsi sotto il cielo per sentire l’infinito.
Il cieco l’aveva accarezzata a lungo disegnandole i contorni e spiegandole in che modo la sua fronte era bombata appena un poco, il suo naso dritto e breve si arricciava nel sorriso, le diceva che era fredda ma tenendole le mani sulle guance la sentiva riscaldarsi – stai arrossendo? Le chiedeva, le stampava lunghi baci sulle labbra e lei, la sera, li guardava negli specchi e li vedeva diventare un po’ più brevi nel futuro, fino quasi a scomparire.

madame psychosis

venerdì 11 marzo 2011

lati caratteriali e personalità della propria natura escon fuori comunque. se per sentirsi qualcuno persone anche migliori nella realtà indossano poi qui dentro maschere di questo tipo, è indice del fatto che pensano che per sentirsi più importanti e superiori serva agire così. e se lo pensano, significa che nel loro recondito IO credono che sia così anche nella vita. - Indomabile